Recensione
Il ricordo è soltanto nostalgia, quasi un avvitarsi dell’individuo su sé stesso? O rappresenta piuttosto la memoria di quello che è stato, le radici alle quali l’individuo deve attingere per trovare le ragioni del suo essere?
A queste domanda il libro “ La ragazza che amava gli stranieri”, opera prima di Paolo Quarto, avvocato e autore di pubblicazioni giuridiche, sembra rispondere senza esitazioni nel senso della seconda ipotesi prospettata. Da qui si dipana la storia, molto semplice ma avvincente, che è quella dell’amore esile e ingenuo di due ragazzi sullo sfondo della contestazione studentesca del millenovecentosessantotto, in una Trieste incantevole, decadente e mitteleuropea. Un amore che, come è nella logica delle cose, è destinato a finire nel volgere di poco tempo, travolto da un improvviso desiderio di libertà – che è quasi anarchia di sentimenti – proprio del clima che aleggiava in quei tempi nel mondo giovanile. E la contestazione del ’68 dei primi momenti, sempre presente sullo sfondo, è raccontata attraverso le vicende minime dei protagonisti nella sua vera essenza : non già un movimento egemonizzato da forze politiche o partitiche, ma una rivolta spontanea, trasversale, che nasceva da forti impulsi libertari.
Ma non è solo questo. Perché il ricordo di quel periodo, se da un lato si perde nelle nebbie del tempo, dall’altro sembra mantenere un filo invisibile che lo lega al presente; e le vicende occorse nei decenni a seguire ai protagonisti e ai loro compagni e amici, non restano relegate in un passato ormai sepolto, ma vengono ricostruite, sia pure in modo molto frammentario, dalle poche notizie apprese attraverso contatti epistolari o mediante la stampa e i media. Ed è proprio il tempo, allora, a restituire alla vicenda il suo significato più autentico, portando fuori gli accadimenti dal contingente e proiettandoli in una dimensione più ampia dove tutto appare trasfigurato e acquisita all’improvviso significati prima ignorati. Sembra quasi di rivivere l’ atmosfera , fatte ovviamente le debite proporzioni, di “Piccola città” di Thornton Wilder, autore che peraltro Paolo Quarto ha amato, come tutto il teatro del resto che spesso fa capolino tra le pagine.
Un libro, scritto con stile asciutto e incisivo, addirittura essenziale in certi passaggi, con un io narrante che conferisce alla vicenda un’attenzione costante. Un’opera narrativa che si presta a diversi livelli di lettura: ci si può fermare al semplice ricordo della storia d’amore; si può rivivere o riconsiderare il periodo della contestazione giovanile; oppure attraverso il filo diretto che lega quell’epoca, piena di ideali e di voglia di cambiare, alla nostra, dominata dall’apparenza e dall’inautenticità, ci si può interrogare sulla strada che tutti, giovani o meno giovani, stiamo intraprendendo. Certamente il libro non fornisce – né lo potrebbe fare del resto – delle risposte, ma pone comunque delle domande sulle quali ognuno potrà riflettere.